La notte del corvo, un viaggio all’inferno e poi il ritorno

Non basta una corda a fare un impiccato. È una frase che mi è sempre rimasta impressa, sin dalla prima volta che ho visto “Il buono, il brutto, il cattivo”, western culto di Sergio Leone del 1966. Se non sbaglio, a pronunciarla è Sentenza, il cattivo.
Ma non importa chi la dice, ciò che importa è che questa frase mi è sempre suonata come un inno al non arrendersi mai.
Ed è questa la frase che mi è balenata in testa leggendo la storia che c’è dietro a “La notte del corvo” (Coconino Press- Fandango), un western moderno dell’autore Marco Galli, che qui si firma Apehands, ovvero mani di scimmia.

Torniamo indietro alla fine di marzo del 2016. Ricordo ancora quando la sorella di Marco diede la notizia attraverso la pagina social del fratello. Marco era stato colpito da un male oscuro, la sindrome di Guillain-Barrè, che lo tiene per sette mesi in bilico tra la vita e morte. Paralizzato, a parte gli occhi.
Poi il “risveglio” e la lunga riabilitazione. L’indebolimento dei muscoli gli nega per lungo tempo l’uso del pollice opponibile, ma Marco non si arrende; non rinuncia alla sua forma di espressione. Perché non basta una corda a fare un impiccato. E così Marco si inventa un nuovo modo di disegnare, lo fa nonostante la mano non gli obbedisca, lo fa in modo libero, furente, quasi anarchico; e se i disegni gli sembrano fatti da un’altra persona, lui inizia a firmarsi con un altro nome, Apehands appunto.

La notte del corvo è il grande ritorno di Marco Galli, una ballata western potente e viscerale, un urlo di rabbia e di libertà. C’è un vecchio sceriffo candidato a sindaco, c’è un giovane giornalista che odia il selvaggio west, con la sua polvere e la puzza di merda di cavallo e vorrebbe scrivere di vizi, di soldi, di polo e di Henry James; “non di vaccari puzzolenti”. C’è la tedesca, che non rinuncia al piacere e segue soltanto i propri interessi. E poi c’è lui, El Grajo. «È un pistolero, un ammazza cristiani, uno dei più spietati, mi dice un tizio tra la folla accorsa per vedere il morto, se ci sarà. Mi dice anche che parla strano, è vestito tutto di nero e che gli manca qualche rotella…»

Dall’arrivo dell’uomo con la maschera da corvo tutto precipita in modo imprevedibile. E il sangue scorre a fiumi. Perché «Avete già capito che una faccenda violenta come questa non poteva finire in modo così scialbo. I conti si devono pagare quando si scomodano i demoni dell’inferno.»

Il pulp dilaga, le colt sparano, ma rimane lo spazio per una riflessione sulle disparità sociali e sui confini, sul diverso che fa paura. La nave carica di schiavi che naufraga sulle coste della ridente cittadina di Bajada e scatena il panico nella popolazione si rifà a un presente vicino, attualissimo. Una storia che fa pensare, una storia che è una ripartenza da una frontiera buia.
Un viaggio all’inferno e poi il ritorno.

 

Chanbara – La via del Samurai: western di cappa e spada, tra onore e vendetta

12168131_10153655301962103_1362153054_n«Doku kurawaba sarà made» è un detto giapponese che significa «Se mangiate il veleno, mangiatelo nel piatto». Ovvero, quando si prende un rischio, bisogna andare fino in fondo.
È così per le decisioni importanti, è così quando si tratta di onore… o di vendetta. È questo che fanno i protagonisti di Chanbara – La via del samurai, il prezioso volume di 256 pagine a colori uscito qualche giorno fa per i tipi di BAO Publishing e che raccoglie il dittico La redenzione del samurai e I fiori del massacro, di Roberto Recchioni (testi) e Andrea Accardi (disegni), precedentemente pubblicati nella collana Le Storie (Bonelli).

L’edizione è bellissima: copertina di pergamena, carta patinata e un magistrale uso del colore che gioca sulle tonalità per mettere in evidenza ora la bellezza dei paesaggi del Giappone medioevale, ora i contrasti tra i personaggi o il loro stato d’animo. La prima storia (La redenzione del samurai) vede ai colori Stefano Simeone e ci regala una sequenza di vignette in cui  il cielo si tinge di rosso durante uno degli scontri più cruenti, fino a sfociare a tavola 99 in un tripudio cremisi, in cui anche la terra sembra sanguinare. Veniamo alla seconda storia (I fiori del massacro), che vede ai colori Luca Bertelè. Il cielo cupo e violaceo che appare in certe scene sembra complice di Jun, la giovane protagonista in cerca di vendetta, che a tavola 185  indossa la maschera Oni, i demoni del folklore giapponese. Perché lei e la sua vendetta ormai sono un’unica creatura palpitante. Perché Jun ha scelto di percorrere il Meifumado, la Via dell’Inferno.

Chanbara significa letteralmente combattimento con la spada, ma designa al tempo stesso quel filone di film cosiddetti di cappa e spada giapponesi: i Samurai movies che in qualche modo rappresentano per il Giappone ciò che il western significa per gli Stati Uniti. Non a caso, lo stesso Roberto Recchioni ha ammesso in un’intervista: «La mia idea è quella di scrivere una mia interpretazione del tutto libera di Tex. Con le katane».

«L’onore non si può togliere, si può solo perdere» diceva Anton Cechov. Ed è in nome dell’onore che combattono, vivono e muoiono i samurai del mondo di Chanbara. Il ritmo della narrazione è cinematografico, con un utilizzo alternato di campi lunghi, che rallentano la narrazione e ci immergono nella bellezza del paesaggio, e tagli ravvicinati, con brusche accelerazioni durante le scene di combattimento, sempre ben coreografate. La narrazione è semplice e immediata, proprio come se una pellicola ci passasse davanti. La ricostruzione dei costumi e del periodo storico è scrupolosa.

Oltre all’ambientazione storica, a fare da trait d’union tra le due storie contenute nel volume è il maestro Ichi, che già dal nome richiama il portentoso protagonista di Zatoichi di Takeshi Kitano. Ma mi ha ricordato anche Shu, il guerriero cieco che combatte orientandosi con l’udito e il tatto di Ken il guerriero.

Tra le due storie, la mia preferita è senza dubbio I fiori del massacro. La tematica delle vendetta si dipana come una bomba a orologeria pronta a esplodere. Un incessante ticchettio, e poi l’esplosione finale. Lady Mochizuki, la crudele custode «dell’arte dello spionaggio, della segretezza e dell’omicidio», riprende il personaggio storico di Mochizuki Chiome, una nobile giapponese del XVI secolo alla quale si attribuisce di aver creato un gruppo di ninja tutto femminile. L’addestramento della giovane Jun porta con sé echi tarantiniani e mi ha riportato al cuore uno dei miei revenge movie preferiti: Lady Snowblood, classe 1973, di  Toshiba Fujita, basato sull’omonimo manga scritto di Kazuo Koike. Il titolo stesso della storia ricorda The flower of carnage, la canzone interpretata dalla protagonista della pellicola, la meravigliosa Meiko Kaji.

La sceneggiatura di Recchioni e i disegni potenti ed espressivi di Accardi si completano e danno vita a una melodia che profuma di fiori di pesco… e di sangue. Accardi è un maestro, riesce a trasmettere attraverso le sue immagini ora l’immobilità quasi divina dei paesaggi giapponesi, ora il movimento convulso del combattimenti con largo uso di linee cinetiche e i soggetti che di tanto in tanto escono dalla gabbia quasi per travolgerci (come il cavallo di tavola 93).

Un proverbio giapponese recita Ame futte ji katamaru, che significa dopo la pioggia la terra si indurisce, un modo per dire che le avversità formano il carattere. Bene, i personaggi di Chanbara – La via del samurai, di avversità ne superano tante, e il finale di entrambe le storie fa presagire che questo è soltanto l’inizio.